Vergine giurata


(romanzo, Feltrinelli editore, Milano, 2007)


Premio Fondazione Carical Grinzane Cavour per la Cultura Euromediterranea 2008.


Mark si concentra sulla ventiquattrore. Sulle scarpe. Sul cellulare, che accende. Mi dispiace, si scusa in silenzio. Hana legge il nome sul biglietto: Patrick O’Connor. L’uomo è di origine irlandese. Lei sorride. Cristo, pensa, fra montanari ci si annusa.

Sente pruderle il seno sinistro. Cerca di grattarsi senza usare la mano. È un anno che il seno si fa sentire, da quando ha ricevuto la Green Card americana e ha deciso di emigrare. Non riesce ad alleviare il prurito.
“Signor Doda,” la richiama Patrick O’Connor indicando con un cenno del capo l’angusta cabina del funzionario.
La fila è andata avanti. Hana dà un piccolo calcio al bagaglio a mano. Le scarpe marroni, ai lati, sembrano due orsetti in letargo.
“Perché è venuta negli Stati Uniti, signora Doda?” chiede il funzionario mentre apre il passaporto.
È tardi per tornare indietro. Il villaggio sa che lui è partito e che se n’è andato con il suo regolare passaporto da donna.

Il villaggio aveva osservato, con occhi attenti e penetranti. Aveva anche preso nota di com’era vestito il giorno del commiato, ma senza fare commenti. Erano tempi bui, la gente non aveva energie da sprecare: la gloria di un tempo era svanita sotto latrati ed escrementi di cani randagi. Truciolato di storia, mugolii di gangster che si spacciavano per fuorilegge d’onore, tramonti che tardavano a scendere per timore di venir squattati dalla morte.

da pag. 97:

Gente carica di valigie e sacchi vari sta correndo verso l’entrata della stazione ferroviaria.
“Non potresti restare, oggi?” la prega. “Passiamo la giornata insieme. Non abbaiamo avuto molte occasioni per stare soli, e ci conosciamo appena.”
Hana si volta verso di lui.
“Io ti conosco già,” dice, “è strano e buffo, ma mi sembri familiare. Hai qualcosa che da qualche parte, forse in qualche sogno, ho già conosciuto.”
Ben infila le mani nelle tasche dei pantaloni, le toglie, le infila di nuovo.
“Sei un’altalena emotiva, tu,” dice. “Non è per niente facile seguirti. Mi confondi e mi fai sentire insicuro.”
“Io ti conosco,” prosegue lei ignorandolo.
“Ho anch’io la stessa sensazione, ma è impossibile dirtelo così, su due piedi, senza sembrare un bugiardo che spara parole grosse. Poi però le dici tu, mi precedi, e suoni tanto convincente e naturale che…”
Si guardano attorno, intrappolati nella loro goffagg da giovani che non hanno mai potuto essere liberi.
“Allora resta, Hana. Prima che sia tardi. Non te ne andare. Non voglio perderti così, per tutta l’estate.”
“Non posso, non oggi.”
“Posso venire al tuo villaggio a trovarti, allora, magari la settimana prossima? O quando me lo dici tu.”
“Sei pazzo, vuoi rovinarmi?”
“Ma perché?”
“Perché quelle sono le montagne, Ben!” Hana ha alzato la voce. “Sulle montagne gli uomini non vengono in visita da ragazze non fidanzate. Non si fa!”
Ben ci riflette su, visibilmente confuso.
“Allora ci possiamo incontrare di nascosto.”
Hana scuote la testa.
“E’ diverso lassù, il mondo non funziona secondo le regole di voi gente di Tirana.”
“Io non sono la gente di Tirana,” si irrita lui, “sono Arben Leska e basta.”
“Non ti arrabbiare.”
“Non sono arrabbiato.”
“Lo sei. E lo sono anch’io.”
“Dove sei stato finora?” l’accusa lui inutilmente. “Sei sparita senza dirmi niente quando ci eravamo appena conosciuti.”
“E cosa avrei dovuto dirti?” ribatte Hana senza rimprovero. “Dovevo chiedere il permesso a uno sconosciuto perché stavo andando al funerale di mia zia?… Aspettami sino a fine agosto. Forse tornerò all’università, se lo zio non peggiora. E’ solo un mese e mezzo: puoi aspettare così poco.”
Lei riprende a camminare ma Ben non la segue. E’ brutto, pensa Hana, cammini e ti fermi e poi urli e poi vorresti abbracciarlo e poi fai la dura, e poi lo perdi. Lo perdi. Non resta nulla nella tua vita. Lui si avvicina. Hana si ferma.
“Prima intendevo dire che sei sparita proprio quando avevo deciso di avvicinarmi di più, non è facile fare amicizia con te,” dice Ben cercando di allentare la tensione.
“Be’, adesso ti sei avvicinato e io non ti sto mangiando,” Hana abbozza un sorriso. “Ci rivedremo a fine agosto. Puoi aspettarmi fino ad allora, no?”
Lui inspira profondamente prima di dire tra i denti che forse a fine agosto partirà per Parigi. Lei allarga il sorriso. Non ha capito.
“Forse parto per Parigi,” ripete Ben, “con una borsa di studio. Avevi sentito che il rettorato stava compilando delle liste? Per il francese c’erano quattro borse di studio. Io sarò uno di quei quattro studenti. Ce l’hanno comunicato solo pochi giorni fa.”
Lei decide di attraversare la strada. Piano! Fai. Piano. Non comportarti da cretina. Cambia di spalla la tracolla della borsa di stoffa. Ben le si para davanti. Lei alza lo sguardo.
“Buon per te, mi fa piacere,” mormora.
Brama una via di fuga pulita e silenziosa. Che Ben si volti e se ne vada senza aggiungere altro, non c’è nulla da dire. Tutto esce dalla tua vita, si dice ancora. Tutto corre. Non fare la vittima, non ti lagnare. Punto.
“Stammi bene, allora.” Cerca di trattenere un fruscio odioso nella propria voce. “E buona fortuna a Parigi… A Parigi!”
“E’ per questo che avevo fretta e non sapevo come trovarti.”
“Ho capito. Bene. Adesso ho capito.”
“Come posso mantenermi in contatto con te, Hana? C’è un posto dove posso telefonarti a Rrnajë?”
“Certo, ho un telefono in ogni stanza del mio palazzo.”
“Ti prego! Non voglio perderti. Ci si può tenere in contatto, d’estate verrò sempre in Albania, e anche d’inverno, forse.” Possiamo ancora avere questo mese e mezzo per stare insieme.”
“Il treno parte pure senza di me, ma io non posso perderlo.”
Lei corre. Fra sette, otto ore sarà a casa, e sarà salva. E’ bello andarsene, c’è qualcosa di eroico nella fuga, ti perdi via ti sfumi diventi nuvola oppure uomo. Ci vuole fegato per andarsene.

da pag. 106:

Zio e nipote trascorrono l’estate in una pace importunata dalla morte che verrà. Il dieci settembre Arben Leska le invia una lettera in cui le comunica che è in procinto di partire per Parigi.
A fine mese Gjergj si alza di nuovo e per due settimane sembra stia un po’ meglio. Non riesce a parlare ad alta voce ed è in grado di mandare giù solo cose liquide, ma sta stranamente dritto. A volte cammina. A volte resta per ore vicino a Enver, sulla porta della stalla. Un mattino Hana lo sente insultarlo in malo modo, con la voce che sembra carta smerigliata.
“Sei un coglione,” lo sente dire, “ci hai rovinato la vita, caprone che non sei altro.” Enver bela indifeso e ignaro, poi fa i suoi bisogni sopra le scarpe di Gjergj.
E’ un bellissimo autunno. Le albe tardano a diventare giorno, ma i tramonti non vogliono farsi notte. Tutto resta in bilico, come una piuma e un respiro e un ricordo che non vuole essere dimenticato. E Parigi forse è solo un’invenzione, come la malattia di Gjergj.



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