I mari ovunque


(romanzo, traduzione dall’albanese di Rovena Troqe,

revisione di Elvira Dones e Marina Vaggi,

Interlinea edizioni, Novara, 2007)

Elvira Dones è andata definendosi, in questi anni,

come una delle voci più originali

della nuova narrativa italiana

(…)

Elvira Dones firma un romanzo

di grande intensità emozionale,

in una scrittura tesa e vibrante

dalla prima all’ultima pagina.

(Roberto Carnero – L’Unità)




La quarta di copertina:

Un viaggio in Irlanda s’intreccia con flashback che illuminano il passato dei protagonisti: Andrea, orfana argentina cresciuta tra sofferenza e ospedali psichiatrici, ed Eric, nel quale lei incontra la normalità e una ragione per non gettare via la vita. Passo dopo passo si scopre il perché di quel viaggio e delle scelte dei due personaggi, seguendo il ritmo appassionante di questo romanzo di dolori e sentimenti raccontato con rara delicatezza.

Le prime pagine:


Il cielo era spalmato sulla terra.  La terra gemeva di un piacere profondo e grave come il respiro della vita. Ricominciava da capo, la vita. Era l’esordio di un’esistenza primordiale. Tutto veniva fecondato in quel giorno, e quanto accaduto prima era completamente irrilevante, pensò Andrea. Non vi erano più ricordi nella corteccia cerebrale della terra. Un frammento, un soffio del tutto impalpabile, era invece rimasto nella sua memoria di ragazza smarrita.

La parola ragazza la fece sorridere. Erano anni che non si definiva più così. Si era gettata alle spalle il passato, il presente e il futuro. Aveva abbandonato tutto ciò di cui poteva disfarsi. Fuorché questo mattino che non si lasciava tradire da nessuno.

Mentre con lo sguardo inchiodava lo spazio davanti a sé, gli occhi le fecero male. Era una giornata maestosa, di quelle che mortificano ogni tentativo di opporsi alla bellezza.

Respirò. È possibile, si chiese, tutto è possibile? Qualcosa è possibile? La possibilità stessa è concepibile?

Sentì freddo, rabbrividì provando un liquido piacere.

Respirò di nuovo, più forte stavolta, concentrandosi sul moto dei polmoni. Si osservò le mani. Erano azzurre: il cielo si era insinuato sotto la pelle. Se le passò fra i capelli con la delicatezza di una goccia di rugiada. Vide il castano trasformarsi in azzurro man mano che le dita li solcavano come un pettine prima di fermarsi sulla nuca, distratte e indecise. Le ritirò e le fissò di nuovo.

Poi chiuse gli occhi. Piegò il capo all’indietro. L’azzurro s’infilò anche sotto le palpebre e lei sorrise in silenzio.

Non è giusto, pensò: che all’improvviso la vita ti sbatta in faccia così tanta bellezza, dopo tre giorni di pioggia, è pura crudeltà. Bisognava lottare, opporsi con tutte le forze, fino alla morte.

Un gemito le montò in gola senza trovare sbocco. Cercò di governare il corso dei sentimenti. Era mercoledì, una giornata di mezzo che non invitava a scervellarsi sul senso delle cose. Sarebbe stato più facile essere ottimista o disperata di lunedì o magari di domenica, giorni di confine nel flusso della settimana, lembi estremi che permettevano, quasi incoraggiavano gli atteggiamenti frivoli. Di mercoledì invece era già tanto mantenere il controllo di sé.

Ma con un simile mattino, lì, sotto il cielo di Dublino, Andrea si sentì disarmata. Una mano onnipotente le scagliava nell’animo ogni sorta di meraviglia, sabotando i suoi buoni propositi, e lei non voleva essere ostacolata. Bastava la presenza di Eric, pensò, a incarnare tutti gli ostacoli di questo mondo.

“Andrea?”

Si voltò appena. Suo marito indossava qualcosa di bianco che lo illuminava e lei non osò guardarlo.

“Andrè”.

“Sì?”

“È tanto che sei qui?”

“Non so, forse dieci minuti”.

“Ti aspettiamo per la colazione”.

“Ancora un attimo”.

“Prenderai freddo, con quella camicetta”.

“Ancora un attimo”.

“Vuoi che ti aspetti dentro…”

La voce strascicata di Eric escludeva il punto interrogativo. Lui restò in attesa. Andrea fissava un luogo lontano dalla silhouette del compagno, senza però ignorarla completamente. Poi si voltò di scatto e lo abbracciò. Il maglione di Eric era bianco, i capelli non ancora asciutti.

“Ma tu tremi come un cagnolino,” sorrise.

“Ti amo, Eric”.

“Entriamo?”

“No”.

“Ti amo anch’io Andrè”.

“Lasciami sola ancora un po’, ti prego”.

“Prima vieni a coprirti”.

Il sorriso le lacrimava, tanto che lui mal ne sopportava la vista.

“Mi avevi promesso”, si lamentò, “mi avevi detto che oggi sarebbe stato un giorno tranquillo”.

Andrea cercò nuovamente di controllarsi. Eric infilò le mani in tasca e chinò la testa.

“Mi passerà” lo rassicurò lei. “Chissà cosa m’è preso proprio oggi. Colpa di questo cielo che è così…”

Lui la strinse ancora a sé. I tremiti del corpo di Andrea si fecero sussulti.

“Ti prego, ti scongiuro. Non oggi”.

Concedimi una tregua, per un giorno, uno soltanto, implorò l’uomo in silenzio, per rivivere ancora il tuo sole, altrimenti Dio solo sa…

“Hai ragione” disse Andrea. Si liberò dall’abbraccio e si diresse verso la pensione.

Eric rimase lì con le braccia penzolanti lungo i fianchi. Per scacciare l’ansia respirò rumorosamente.

Era davvero un mattino difficile da deglutire. L’azzurro del cielo di Dublino aveva colto Andrea alla sprovvista, sembrava averle strappato via qualcosa. Ma era importante rispettare la decisione di ieri, insistette lui. Doveva essere un giorno normale per entrambi, altrimenti ancora una volta sarebbe tutto andato in fumo. Voltò le spalle ai pensieri e varcò l’entrata.

La signora della pensione si dava un gran daffare in cucina. L’odore di olio fritto e di grasso, che Andrea detestava, aveva invaso ogni angolo della casa. Dalle scale rivestite di moquette rosso fuoco a fiori gialli scendevano due dei turisti del piano superiore, trascinandosi ognuno una valigia. Eric buttò là un buongiorno e salì verso la stanza.

Per un attimo il rumore della doccia lo rassicurò. Gettò alla rinfusa le coperte sul letto e si mise a ripiegare la camicia di Andrea. Mentre stendeva le pieghe, s’accorse del mazzo di cartoline che sporgevano appena dalla borsetta di sua moglie. Le afferrò e le infilò in una delle tasche del suo zaino. In bagno l’acqua smise di scorrere.

Quando uscì, lei sembrava il ritratto della calma.

“Non guardarmi così”, gli disse levandosi l’asciugamano dai capelli, “mi è passato, adesso sto meglio”.

“Hai tanta fame?”

“E tu?”

“Al piano di sotto stanno friggendo tutti i grassi del mondo”.

“Dici che la signora se la prenderà se le chiediamo ancora una colazione continentale?”

“S’offenderà a morte”.

“Beh, allora è meglio mangiare fuori, non voglio attentare alla salute di una signora così ammodo,” commentò Andrea con un sorriso.

Si sistemò in fretta. Eric aspettò seduto sull’unica poltrona della stanza, studiando la cartina della capitale e sbirciando Andrea con la coda dell’occhio. Lei infilò il rossetto nella borsa dopo averne steso un leggero velo sulle labbra. Non ha cercato le cartoline, si tranquillizzò Eric.

Scesero. Gli altri ospiti della pensione, sei in tutto, mangiavano in silenzio. La padrona di casa si diresse con la caraffa di caffè verso l’unico tavolo libero, ma Andrea la bloccò sussurrandole, con tono di scusa, che erano in ritardo e che dovevano andare via senza perdere tempo. Era davvero gentile da parte sua viziarli così, facendo trovare tutto pronto, loro le erano molto grati, ma ecco… dovevano proprio andarsene. La donna abbozzò uno sguardo tra l’offeso e l’incredulo. Si voltò verso Eric, che aveva già un piede fuori dalla porta della pensione.

“Almeno un caffè?” rilanciò.

Domani, domani avrebbero sicuramente fatto colazione lì, per non perdersi tutte quelle squisitezze, la rassicurò Andrea con tono mieloso.

“Ah, quindi neanche il caffè?” esclamò la donna posando la caraffa sul tavolo con un colpo secco. “Lasciate almeno che vi dia qualche dritta su Dublino. Dove avete deciso di andare? È talmente bello, oggi: a noi irlandesi capita raramente d’avere un sole così, e allora bisogna approfittarne.”

Andrea lanciò un sos a Eric, che ritrasse il piede dalla soglia con la pazienza ormai agli sgoccioli.

“Oggi vorremmo visitare la prigione di Kilmainham,” sbottò fissando la donna dritto negli occhi.

“Oh,” lei si fece il segno della croce. “Con una giornata così bella? Visitare la prigione… Che peccato”.

A lui sfuggì una smorfia, se non ci lascia andare entro dieci secondi la uccido, disse tra sé.

“Non voglio impicciarmi, per carità. Buon divertimento, allora”.

Andrea ricambiò con una raffica di false cortesie e se la diedero a gambe.

“Ma brava”, si lamentò Eric più tardi, “ogni volta che c’è da interpretare il ruolo dell’antipatico, tu ti nascondi dietro di me”.

“Beh, sei tu il suo cocco, io invece rovino tutto col capriccio della colazione continentale”.

“Che dio ci protegga dalla dolce arpia”, rise lui.

Andrea cercò di imitarlo, senza riuscirci. Le lacrime le stavano rannicchiate nella bocca dello stomaco. Osservò il profilo di Eric. Non doveva deluderlo, non oggi.




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