Piccola guerra perfetta

(romanzo, Einaudi editore, Torino, 2011;

prefazione di Roberto Saviano)

Non è un romanzo di guerra: questa è la guerra.

dalla prefazione di Roberto Saviano

 
Un libro importante e sorprendente (…) Oltre ogni aspettativa

Fabio Fazio – Che tempo che fa

 

La riprova di quali atrocità possa richiudere la naturalezza della scrittura.

Nello Aiello – L’Espresso

 

Perturbante, bellissimo

Alessandro Mezzena Lona – Il Piccolo

 

Uno sconvolgente pedaggio pagato alla memoria

Francesco Romanetti – Il Mattino

 

In questo libro le parole cadono come bombe. Una dopo l’altra. Lentamente. Silenziosamente. In modo preciso.

Dagmara Bastianelli – RadioPereira

 

La grandezza del romanzo (e dell’autrice) sta nell’aver raccontato la guerra dal punto di vista delle donne.

Tiziana Lo Porto – La Repubblica Donne

 

Ci sono passaggi dolcissimi, pur nella loro drammaticità, che emozionano e rendono le nostre sensazioni tanto simili a quelle dei protagonisti.

Lorenza Mondina – Insubria Critica

 

È nei momenti più dolorosi, quelli degli stupri e delle carneficine, che la Dones offre la migliore prosa asciutta e salda, che non perde mai il controllo.

Fabio Mercanti – Le Reti di Dedalus

 

Drammatico, intenso, tragicamente semplice.

Paolo Pappatà – Mangialibri

Primo giorno




Hanno appena posato il dolce al centro del tavolo. Quant’è brutto, pensa Rea e sorride tutta strana. Fra poco taglieranno la luce. La sua amica Nita la implora con lo sguardo e Rea la accontenta dicendole che la torta è bellissima. La terza del gruppo, Bessa, s’asciuga le mani sul grembiule e inchioda una candela sul tavolo, accennando un sorriso che sembra una minaccia.
– Su, Rea! – dice. – Esprimi un desiderio e facciamola finita.
È mercoledì 24 marzo 1999. Lei è Rea Kelmendi e questo è il suo giorno. Sarebbe il compleanno perfetto, quello che non puoi dimenticare nemmeno fra cent’anni. È un compleanno molto letterario, non può essere romantico ma letterario sì.
Bessa è alta, maestosa, la trasposizione umana della Torre Eiffel. Rea ride sonoramente. Bessa la trafigge con lo sguardo e resiste appena alla tentazione di controllare l’orologio alla parete. Mentre Nita Gashi pensa che tutto questo è folle: la torta la candela e tutto quanto, nonostante sia stata lei stessa a insistere per la festa.
Fiona, Vjosa e Edita sono venute due ore prima. Hanno sussurrato a Rea un Buon compleanno e poi hanno parlato delle temperature oltremodo miti per la stagione, dopodiché si sono rinfilate le scarpe e se ne sono andate senza dire Ciao ci vediamo.


Le finestre gemono per via delle bombe che hanno iniziato a martellare la terra non lontano da lì, ma loro tre fanno finta di niente. Rea si augura che facciano un bel lavoro, le bombe, che radano al suolo tutto ciò che devono radere al suolo, e se riescono a sbrigare le cose in una notte sola, tanto meglio.
La candela sulla torta ora è accesa. Rea scuote la testa per sentire i capelli muoversi mentre la coglie un improvviso conato di lacrime che cerca di controllare. Art non ha ancora chiamato. È tutto concentrato a battezzare la guerra, mentre lei prova sentimenti più utili, per esempio adesso si sente bellissima.
– Dài, tesoro, soffia su questa benedetta candela, – la risveglia Nita, soffice come sempre, il sorriso largo. Bessa già tiene in mano il coltello.
La festeggiata ride tra le lacrime. – Sembri un macellaio, – dice all’amica.
La luce si interrompe in quel preciso istante e Bessa pensa che ora deve proprio correre a casa. Besnìk, Alma e Drin l’aspettano: le valigie della fuga già pronte in corridoio. Immagina Besnìk, suo marito, che cerca di rivolgersi ai bambini con tono scherzoso per spazzar via il panico dai loro sguardi.
Nita armeggia per accendere la lampada a olio. Rea soffia finalmente sulla candela. Le finestre sono oscurate da due strati di coperte di lana. Il suono delle bombe ora è più nitido, più vicino. Squilla il telefono. Nita riesce ad accendere la lampada, Rea ha raggiunto l’apparecchio in fondo al corridoio. Parlotta un po’. La frase finale prima di posare la cornetta è: va bene allora ci sentiamo fra mezz’ora.
Ora che Nita si è avvicinata con la lampada, le ombre sui muri si strozzano a vicenda.
– Era Hamzà da Londra, – dice Rea. – La Bbc ha appena annunciato l’inizio della guerra. La Nato ha bombardato postazioni in Serbia e in Kosovo. Lui seguirà bene i notiziari e poi ci richiamerà per dirci di più.
Hamzà è il fratello di Nita emigrato in Gran Bretagna. Questa è la casa di Nita. Ma il compleanno è mio, precisa Rea dentro di sé. Bessa si fionda verso la porta e cerca alla cieca le scarpe, poi fa per abbracciare le amiche ma Nita si nega e Bessa si blocca. Nessuno si abbraccia più da settimane. Io non ti ho abbracciato perciò non ci siamo separati perciò niente di grave può succedere.
– Buon compleanno tesoro, – dice Bessa con la voce tremula e apre la porta, facendosi inghiottire dal buio.
Dopo cinque minuti ancora lo strillo del telefono, questa volta è il padre di Rea.
– Non osare uscire di lì, – intima Risà Kelmendi. – Qui da noi le bombe stanno scendendo che dio le manda.
Il grande fis di Rea, i Kelmendi, vivono sulla Costa del Sole, la casa di Nita sta nel quartiere Dardania. Rea riflette sulla scelta del verbo scendere. Immagina le bombe scendere educatamente e in totale silenzio; a metà cielo le vede aprire piccoli paracaduti colorati che avanzano con inalterato garbo fino a posarsi sull’esausta, infangata gobba di Madreterra senza causare nessun trambusto. La ventiquattrenne studentessa di lettere precisa al padre che la discesa delle bombe la sentono pure qui a casa di Nita. L’uomo fa per aggiungere qualcosa ma non ci riesce, e così pongono fine alla conversazione.
– Papà resta un grande, – dichiara Rea, – è sempre stato un grande. Possiamo mangiare questa torta adesso?


Non dormono. Rea pensa ad Art e questo le provoca rabbia, perciò parla a raffica. A volte Nita ride. Ogni tanto Rea afferra la candela e se la porta a spasso per l’appartamento. S’imbatte negli oggetti, impreca, sghignazza e la voce le si strozza di nuovo dal pianto. Nita segue con gli occhi sbarrati l’ombra alta e magra di Rea, ringraziandola in silenzio di trovarsi lì con lei e non altrove. Si erano conosciute quattro anni prima grazie a Bessa, che era la professoressa d’inglese di Rea all’Università di Pristina. Hanno dieci anni di differenza. Nita e Bessa invece sono amiche di vecchia data.
– Stai ferma, per piacere, – la prega Nita verso le due del mattino. – Non sei stanca?
Rea si siede per pochi attimi. Indossa una tuta Adidas, ha infilato una forcina nei capelli corti. Nita continua a fumare.
– Starai fumando anche quando ti fulminerà la bomba, – la rimbrotta Rea. Nita accenna un sorriso, sarà una morte niente male: docente universitaria ancora giovane e nubile, di aspetto piacevole, taglio di capelli e vestito nero essential chic, stecchita da una bomba mentre era seduta sul divano con la sigaretta tra le dita.
È stata una giornata intensa. Di lì sono passati fratello e sorella di Nita con figli e consorti. L’intero viavai non ha prodotto una lacrima o un abbraccio. A domani era l’unica parola degna di rilievo: sottolineata e messa in un grassetto virtuale di 48 punti.
Da quando è calato il buio Hamzà, il più giovane dei fratelli Gashi, ha telefonato da Londra altre due volte, confermando in sostanza ciò che già si sapeva: la guerra è iniziata.
L’ultimo contatto con il mondo, per stanotte, resterà la voce di Bessa che ha chiamato appena rientrata a casa sua.
– È tutto a posto, – ha ripetuto fino alla noia.
Non si era imbattuta nei poliziotti o nei paramilitari. Poi la linea è caduta e Nita ha scosso l’apparecchio per riportarlo in vita. Dopodiché Rea gliel’ha tolto di mano.
Le bombe hanno smesso da un pezzo però non puoi distrarti nemmeno un attimo, la notte richiede un’attenzione spietata. Verso le tre del mattino al piano di sopra qualcuno sposta dei mobili. La gente ha tolto i divani e i letti che stavano vicino alle finestre e ora ogni oggetto è fatalmente attratto dal centro delle stanze.
La morte l’avevano sempre aspettata via terra: soldati e cecchini, poliziotti e paramilitari, carri armati, bombe a mano, celle di interrogatori e torture, medici e infermieri che nella flebo iniettavano veleno. Ma il cielo era diverso, aveva regole differenti, ci voleva un po’ per adattare le difese.


 

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